Se cambi la tua narrativa, cambierai la tua realtà: il potere del linguaggio
di Luca Massaroli
Quando ero bambino, la cosa che mi affascinava di più nelle fiabe e nei racconti era indubbiamente la magia. Sognavo di fare il lavoro di Mago Merlino, da grande. Avere una barba bianca e lunga, un cappello con la punta ripiegata, una enorme dose di saggezza, conoscenza e simpatia e infine un gufo parlante, per giunta dannatamente divertente e istruito.
Volevo piegare la realtà che avevo intorno al mio volere. Provavo a saltare sul divano focalizzando il pensiero di volare fino a farmi male alla testa. Sognavo di volare via dalle situazioni scomode, appollaiarmi sopra a un campanile e guardare il paesaggio sotto un cielo stellato. Oppure immaginavo di agitare la mia bacchetta e far comparire i miei eroi dei film o dei fumetti, di parlarci, di giocarci, e come stavo bene, nel mio corpo, mentre immaginavo tutto questo. “Quando sarai grande smetterai d'illuderti” era il pensiero che accompagnava la mia crescita, ma il fascino per la magia non se n’è mai andato.
Un giorno trovai un po’ per caso una teoria di alcuni pensatori che attribuiscono l’origine della formula magica più famosa di tutte, “abracadabra”, all’aramaico antico “Avra keDabra”, che significa letteralmente “io creo mentre parlo”.
Un flusso di domande ha cominciato a scorrere come un fiume in piena, con tutto il carico di adrenalina della magia intrappolata nella mia infanzia: può la vera magia essere la parola? Può la parola alterare la realtà, e se sì, in che modo?
Per capirlo bisogna analizzare l’origine della parola stessa. Da dove arriva? Come abbiamo iniziato a comunicare? Come si è costruito il nostro linguaggio?
Verrebbe facile pensare, ed era considerato ovvio fino a poco tempo fa, che il nostro linguaggio si sia evoluto dai suoni che i nostri antenati emettevano, quei versi che farebbe chiunque se gli venisse chiesto di scimmiottare (curiosa anche questa parola!) gli esseri umani primitivi. Beh, potrebbe non essere così.
Secondo una teoria scientifica i nostri progenitori avrebbero sviluppato dei suoni che riassumessero in tempo breve, per il gruppo, un accadimento importante, come ad esempio segnalare un imminente pericolo lanciando un grido di allarme. Recenti studi neurologici dimostrano che le parole sembrano non essersi evolute da questi suoni, ma da un’area del cervello finalizzata all’azione. Come se al gesto significante “dammi” o stendere le braccia per dire “vai via” si siano uniti in modo “sinestesico” dei suoni producendo quindi delle parole. Quindi il suono “emotivo” e il linguaggio umano vengono creati da aree del cervello completamente diverse.
I circuiti neurali alla base dei richiami dei primati non umani sono radicalmente diversi da quelli che sottendono il linguaggio umano […] Un sistema di vocalizzazione posto nelle strutture profonde del cervello è presente anche nell’uomo, ma esso ha poco a che fare con il linguaggio, essendo legato a espressioni vocali di tipo emotivo.
(Rizzolatti, Sinigaglia, So quel che fai, pp. 151-152)
Le parole, i pensieri, i concetti che esprimiamo possono essere considerati delle vere e proprie azioni. Quando parliamo, quando pensiamo, non esprimiamo solo una serie di suoni che hanno un particolare significato, noi stiamo compiendo delle azioni. Ma che tipo di azioni?
C’è una branca della scienza medica che si chiama psico-neuro-endocrino-immunologia, che studia l’interconnessione di tutti i nostri sistemi principali: quello, appunto, psicologico, neurologico, endocrino e immunologico. Se le parole vengono dal nostro cervello, un groviglio di neuroni animato dalla nostra psiche, possono forse influire sulle nostre ghiandole finanche al nostro sistema immunitario? Dario Migliavacca, nelle precedenti uscite di questo magazine, parlava del potere che hanno le parole, alcune in particolare come un semplice “sì” oppure un “no”, nel generare la produzione di determinati ormoni nel nostro corpo. Questo significa che noi parlando e pensando (i pensieri non sono forse costruiti con parole e immagini?) andiamo ad agire sul nostro corpo e su quello degli altri alterando la nostra biochimica e modificando il nostro stato psicofisico. Una dichiarazione del genere è da rileggere almeno altre due volte.
Unendo quindi alle parole che escono dalla nostra bocca delle intenzioni, possiamo davvero lanciare degli incantesimi a noi stessi e agli altri. Anche il solo atto di ascoltare, ascoltare attivamente, senza solo aspettare il proprio turno per parlare ma accogliendo in tutto e per tutto quello che l’altro ci sta comunicando, cambia completamente il nostro stato psicofisico. Ecco, allora, la vera magia, il mago fiabesco che prende forma nel reale. Peccato che le scuole di magia non esistano. Insomma, non ci viene insegnato da bambini a comunicare in maniera consapevole.
Spesso non sappiamo nemmeno come descrivere alcuni stati dell’essere che viviamo. Per esempio, alla domanda “come stai?” rispondiamo con un semplice “Bene, grazie! E tu?” oppure con un “Male purtroppo. Ma non ne voglio parlare”. Raggruppiamo tutto ciò che abbiamo dentro in un banale “bene” o “male”. La Comunicazione Non Violenta di Rosenberg dedica una parte del suo percorso al riconoscimento, allo studio e all’uso di nuove parole per definire i nostri processi emotivi, o per dirla con parole sue, “ciò che è vivo dentro di noi”. Questo permetterebbe di definire meglio le nostre emozioni, di comprenderle meglio e di conseguenza rispondere meglio a ciò che ci accade. Come se allargando il nostro vocabolario, noi espandessimo il mondo intorno a noi e anche il nostro universo interiore.
Le parole sono quindi le lenti attraverso cui vediamo il mondo esterno, interpretandolo secondo la nostra esperienza personale. E la nostra esperienza personale può essere riscritta attraverso una più accurata descrizione di ciò che racconta. Non solo, se osserviamo attentamente ciò che ci raccontiamo ogni giorno nella nostra testa, quei pensieri automatici, quel sistema di credenze a cui siamo aggrappati, siamo in grado di stabilire la rotta verso cui siamo diretti.
C’è un film, il cui titolo mi sfugge, che narra di alcuni monaci mistici nascosti in una caverna chissà dove che raccontano incessantemente la storia del mondo. Qual ora l’ultimo di questi monaci dovesse morire, il mondo cadrebbe. Se non ricordo male, arrivano gli antagonisti e distruggono il villaggio dei monaci, ma il mondo non crolla. Questo perché qualcun altro, da qualche altra parte, sta continuando a raccontarne la storia. Siamo noi quei monaci, siamo noi che raccontiamo la storia del nostro universo personale che confluisce assieme a tutte le altre miliardi di storie in quel fiume dell’esistenza che è la realtà. Cosa succederebbe se al nostro racconto personale, volessimo modificare delle frasi, dei contenuti, e magari volessimo cambiare il nostro modo di esprimerci scegliendo con cura ciò che ci diciamo l’un l’altro e a noi stessi? Cambierebbe il mondo, il nostro e anche quello degli altri. Cambierebbe la nostra realtà.
Se cambi la tua narrativa, cambierai la tua realtà.
“Se il nostro corpo è un testo
la malattia è un refuso.
La medicina del futuro
è l’attenzione alla lingua.
Badate prima di tutto alle parole,
le parole fanno tempeste
nella carne, possono fare buchi,
possono fare tane, trame, tele
di ragno.
Il male e il bene sono fasi, frasi,
sono mete, metafore
che legano un corpo all’altro,
un giorno all’altro.
Non dire una parola
che non sia felice di essere detta,
non ascoltare una parola
che non sia necessaria
come l’acqua, inafferrabile
come il vento.”
Franco Arminio
Luca Massaroli è attore e ricerca il significato delle cose nella Natura e nella parola.