Il linguaggio e la cultura che ci circondano: imparare dalle popolazioni indigene a vivere nel presente.
Di Elisabetta Preite
"Linguaggio: nell’uso ant. o letter., e talora anche nell’uso com. odierno, lo stesso che lingua, come strumento di comunicazione usato dai membri di una stessa comunità. In senso ampio, la capacità e la facoltà, peculiare degli esseri umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di informare altri esseri sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna, per mezzo di un sistema di segni vocali o grafici." (treccani.it)
Il linguaggio ci permette di condividere i nostri pensieri con altre persone nello spazio e nel tempo. Ad esempio, questo testo che tu stai leggendo è costituito da lettere che tu hai la capacità di mettere insieme per formare parole e frasi, poiché parliamo la stessa lingua. Questo scritto può essere letto da una, dieci, cento o centomila persone, anche contemporaneamente e/o in spazi e tempi diversi. Il fatto che tu possa leggerlo in lingua italiana, significa che conosci l’italiano e che viviamo o abbiamo vissuto in una società e in una cultura che ci accomuna. La lingua rispecchia l'ambiente in cui questa viene utilizzata. Il fatto che l'essere umano abbia la facoltà di produrre un linguaggio con delle strutture al suo interno, è qualcosa d'innato e biologico?
Si stima che nel mondo esistano più di 7000 lingue diverse, ognuna con suoni, parole e strutture grammaticali differenti. Quali sono le differenze tra le persone nel modo in cui concepiscono lo spazio, il tempo, le quantità e i generi?
La percezione dello spazio
La psicologa Lera Boroditsky ha condotto una ricerca sul linguaggio nella comunità di aborigeni australiani dei kuuk thaayorre, nell’estremo ovest di Cape York. I thaayorre per esprimere lo spazio non usano destra e sinistra, ma utilizzano i punti cardinali. Per salutarsi non dicono “Ciao!”, ma dicono: “Dove stai andando?”, “Vado in lontananza, verso nord-nord est, tu?”. Cosa succederebbe se noi vivessimo in una società in cui per salutarsi dovessimo dire sempre la direzione verso cui stiamo andando? Di sicuro saremmo sempre tutti ben orientati nel mondo. Infatti, già all’età di quattro anni i thaayorre riescono a riconoscere i punti cardinali, anche in spazi al chiuso. Ciò è possibile perché la lingua e la cultura insegnano all’orientamento.
Boroditsky prosegue la ricerca con i thaayorre approfondendo anche la percezione del tempo. La psicologa ha dato agli indigeni delle foto di suo nonno rappresentato in diverse età della vita, da bambino a più anziano, e ha chiesto loro di ordinare le foto in ordine cronologico. Tu e io sicuramente le disporremmo da sinistra verso destra, un giapponese da destra verso sinistra come anche un arabo. E i thaayorre? Dato che non utilizzano destra e sinistra, ma usano i punti cardinali, la loro percezione dello spazio non è connessa al loro corpo, ma al territorio. Allo stesso modo funziona la percezione del tempo, determinato anch’esso dal territorio. I thaayorre dispongono quindi le foto da est verso ovest.
Possiamo considerare una visione egocentrica quella di definire il tempo e lo spazio in base al nostro corpo? Cosa accadrebbe in noi se indicassimo costantemente il tempo e lo spazio in base al territorio che ci circonda? Quanto potrebbe cambiare la nostra relazione col territorio in cui ci troviamo e con le persone che incontriamo? Io mi sentirei un puntino minuscolo sulla Terra enorme all’interno di questa galassia nell’universo.
La definizione delle quantità e del tempo
Un altro elemento che può diversificare molto la concezione del nostro mondo è la definizione delle quantità. Ci sono delle comunità che non utilizzano i numeri, come la popolazione dei pirahã nell’Amazzonia brasiliana. Il linguista Daniel Everett ha vissuto trent'anni con i pirahã ed è arrivato da loro negli anni Settanta con l'intento di studiarne lingua, tradurgli la Bibbia e convertirli al Cristianesimo. Dalle sue ricerche emerge che i Pirahã riescono a indicare le quantità con tre parole: uno, due, messi insieme (quest'ultimo noi lo tradurremmo con molti).
Hic et nunc
Everett ha anche appurato che questa popolazione non ha forme grammaticali per indicare il passato. Secondo lo studioso questa popolazione vive costantemente nel presente, non fanno rifornimenti di cibo, non ricordano i nomi dei loro nonni e non hanno nessun mito riguardante la creazione o ciò che c’era prima dei pirahã. Per loro tutto è sempre (stato) così come è.
Cosa significherebbe non poter quantificare il passato e raccontare la storia dell’umanità, delle religioni o della politica? Cosa sarebbe della nascita degli Stati e del loro potere? Il linguaggio che noi utilizziamo ci permette di aprire costantemente nuove visioni sul mondo, conoscere la matematica ci permette di studiare algebra; parlare al passato ci permette di tenere vive le storie dei nostri antenati, della nostra società e tramandare storie.
Come spiega Everett, vivere come i Pirahã significherebbe vivere costantemente nel presente e praticare il carpe diem del poeta latino Orazio. I pirahã sono completamente assorti nel vivere il giorno presente, non pianificano il futuro, non costruiscono case o canoe col fine di renderle resistenti per molto tempo. Parlano solo di ciò di cui hanno avuto esperienza.
Per quanto riguarda la religione, i Pirahã non capivano perché un uomo dovesse continuamente parlare di un tale Gesù e delle cui azioni nessuno ormai era più testimone perché alcuna persona vicino a lui era in vita. Questa società tribale (come molte altre) viveva già in pace e in armonia con il mondo, la natura e le persone. Gli indigeni non avevano bisogno di una religione o di un linguista missionario che gli spiegava come vivere. Fu così che Everett diventò ateo.
La grammatica universale
Quegli anni con i pirahã hanno condotto Daniel Everett a un'importante confutazione che è quella che riguarda la teoria della Grammatica Universale di Noam Chomsky. Questo dibattito potrebbe trasformare la comprensione che abbiamo del linguaggio umano.
La teoria della Grammatica Universale si basa sul fatto che nell'essere umano siano innate delle regole strutturali del linguaggio, che queste esistano indipendentemente dalla sfera sensoriale e che siano presenti in un numero limitato. Secondo questa teoria l'uomo è biologicamente programmato per produrre un linguaggio con delle regole fisse e finite. Tale teoria è alla base degli studi linguistici del XX secolo.
Secondo i suoi studi sui pirahã, Everett invece dimostra che la loro lingua non presenta strutture fisse, poiché la loro cultura enfatizza il presente e crea una forte mancanza con la creazione di miti e tradizioni, di cui non hanno bisogno. Il linguaggio assieme alle sue strutture dunque non è innato e biologico, ma si sviluppa dalle necessità, dalla cultura e dalla società in cui viviamo.
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Elisabetta Preite è laureata in Lingue e letterature straniere e in Gestione dei media. Lavora da diversi anni come assistente di produzione per la Markus Zohner Arts Company.