La memoria transgenerazionale di Ernst Ingmar Bergman

Nel film Nära livet (Alle soglie della vita) la storia di vita di tre donne – Cecilia, Stina e Hjördis – si incrociano perché tutt'e tre sono in attesa di un parto nella stessa clinica. Le loro aspettative si incrociano tra vita e morte.

Cecilia chiede al marito se desiderava veramente il figlio e subito dopo viene portata in sala parto, dove perde il figlio spontaneamente; ai medici che la rincuorano, risponde che non ci sarà una prossima volta. Stina attende con gioia la nascita del primogenito, ma il suo bimbo morirà durante l’ultima fase del travaglio. Hjördis, una giovane non sposata, non vuole il bambino che dovrà nascere tra qualche mese; Vorrei non essere mai nata, dice: il ragazzo che l'ha messa incinta si rifiuta di andare a trovarla; una collega di ufficio consiglia a Hjördis di abortire, ma la ragazza rifiuta; Cecilia e l’infermiera Brita consigliano a Hjördis di confidarsi con sua madre; Hjördis, accompagnata da Brita, telefona alla madre e le racconta che aspetta un bambino e che voleva abortire, ma che ora ha deciso di volerlo anche se dovrà allevarlo da sola; la madre le dice di tornare a casa al più presto possibile. Prima di uscire dall'ospedale, Hjördis ascolta Cecilia che le dice di volersi riconciliare con il marito perché la vera solitudine è un’acrobazia continua: la paura è sempre in agguato dentro di te.

Tutto ciò conferma che per una donna tre sono gli ingredienti per un buon parto: il rapporto con il proprio compagno, il rapporto col proprio partner, il rapporto con chi assiste durante la gravidanza e il parto. Questi tre ingredienti danno luogo alla fiducia in se stessa.

Ma veniamo a Ingmar.

Gli artisti parlano sempre di sé stessi?

Ingmar quando scrisse e diresse questo film parlava di se stesso, come, del resto, ciascuno di noi fa, senza accorgersene?

Secondo quanto racconta il libro Kärleksbarnet och bort­bytingen (Il figlio illegittimo e la sostituzione del bambino) di Veronica Ralston, nipote di Ingmar, il corpo del piccolo Ingmar, ancora in fasce, sarebbe stato sostituito furtivamente con quello di un altro neonato nell’ospedale di Uppsala.

Veronica è riuscita a conoscere la verità dopo aver letto Den jag ser på älskar jag (Ciò che vedo è ciò che amo), un libro del 2010 di Louise Tillberg, che afferma che il padre e lo zio di Louise avrebbero avuto un altro fratello, partorito dalla loro mamma Hedvig Sjöberg quando quest’ultima era ancora una ragazza-madre. Il neonato ancora in fasce sarebbe stato consegnato dalla donna a Erik Bergman (il padre di Ingmar, al tempo amante della ragazza-madre). Incuriosita da questa storia, la nipote di Bergman avrebbe effettuato le analisi tra il suo DNA e quello di Ingmar usando dei francobolli usati da Ingmar e incollati su una lettera spedita ai genitori di Louise. I risultati sarebbero inequivocabili: tra Ingmar e Veronica Ralston non vi sono legami di sangue e soprattutto l’analisi del DNA confermerebbe che Karin Bergman non è la mamma biologica di Ingmar.

Veronica ha confessato ai media svedesi: Quando mia nonna Karin Bergman diede alla luce suo figlio era il 14 luglio del 1918. Era stata malata per un lungo periodo ed è probabile che il bambino non sia sopravvissuto al parto. Non ho ancora contattato l'ospedale di Uppsala per verificare se ci sono registri dei bambini nati morti, ma credo di sapere esattamente cosa accadde quel giorno. Suo marito Erik sostituì il bambino che non era sopravvissuto al parto con quello che Hedvig Sjöberg aveva partorito pochi giorni prima a Stoccolma.

Secondo il quotidiano svedese Dagens Nyheter, Louise Tillberg avrebbe spedito una lettera il 9 luglio del 2007 allo stesso Ingmar per fargli conoscere le sue conclusione prima di pubblicare il libro, ma Ingmar sarebbe morto appena tre settimane dopo e non si sa se abbia mai letto la missiva che gli svelava le sue vere origini.

Chi era Erik Bergman?

Erik Bergman era un pastore luterano (poi diventato cappellano della corte reale), che si spostava nelle case parrocchiali dei vari paesini. Questo suo peregrinare infantile influenzò Ingmar nella forma dell’arte religiosa, che egli incontrava nelle rappresentazioni primitive ma grafiche di storie e parabole della Bibbia trovate nelle rustiche chiese svedesi: queste immagini lo affascinarono e gli diedero un interesse vitale nella presentazione visiva delle idee, in particolare l’idea del male incarnata nel diavolo.

Erik educò i tre figli secondo i concetti luterani di peccato, confessione, punizione, perdono e grazia.  Ingmar ricorda: Non potevamo fischiare, non potevamo camminare con le mani in tasca. Improvvisamente decideva di provarci una lezione e chi s'impappinava veniva punito. Soffriva molto per il suo udito eccessivamente sensibile, i rumori forti lo esasperavano. Non era infrequente che, a scopo punitivo, il piccolo Ingmar fosse rinchiuso nell’armadio luogo in cui, rannicchiato, maturava il suo odio per il padre e la sua rabbia contro il Dio-padrone falsamente introiettato in quel clima culturale. Il padre, che ebbe anche periodi di franca depressione, mostrava brutalità e lontananza, alternata a cordialità e trattò Ingmar con rigorosa tenerezza e brutali fustigazioni. Erik mostrava anche tratti autistici: ad esempio, soffriva di udito ipersensibile e le voci forti lo facevano infuriare, aveva una grande memoria, alti standard morali; Ingmar sentiva di assomigliargli in molti tratti, come essere nervoso, irritabile e depresso, avere violenti scoppi d’ira, prendere di mira pesantemente questioni di poco conto. In seguito Ingmar disse di essere indifferente a suo padre e inizialmente si rifiutò di fargli visita in punto di morte.

La paura di perder la madre

Ingmar era profondamente turbato dalla disarmonia coniugale e dalla minaccia che sua madre lasciasse la famiglia.
La madre, Karin Åkerblom, proveniente da una famiglia benestante di Stoccolma, aveva un eccessivo carico di lavoro, era tesissima, non riusciva a dormire, faceva uso di forti sedativi, che avevano effetti collaterali quali l'irrequietezza e l'ansia. Ingmar infastidiva sua madre, che era molto contraddittoria nel trattare i suoi figli. Lui le mostrò una devozione da cane e sfoghi violenti. Fece tutto ciò che era umanamente possibile per compiacerla. Sua madre lo portò da un pediatra che le raccomandò amore severo. Lui ebbe alcuni problemi di assenze scolastiche e sviluppò un falso sé per trattare con lei. Lei era perfezionista … ed ebbe una relazione extraconiugale … e suo padre pensò al suicidio, ma lei non lasciò il matrimonio.

L'infanzia di Ingmar

Ancora Ingmar ricorda:

Ho affrontato la mia educazione mentendo e fingendo e assumendo poi l’identità che i miei genitori avrebbero potuto reputare accettabile. Mentivo senza riserve, con facilità. Ogni tanto una bugia veniva scoperta e punita severamente. … I miei genitori non facevano mai nulla per cattiveria, né per crudeltà, né per il desiderio di punire, come immaginavo io quando ero soggetto a ciò a quel tempo. Loro lo facevano per ripugnanza verso il modo in cui i loro bambini, specialmente i loro ragazzi, si comportavano.

Ingmar aveva un fratello, Dag, maggiore di quattro anni (che in seguito divenne diplomatico) ed una sorella minore di quattro anni, Margereta. Dag, in un’intervista, che Ingmar cercò di vietare, riferiva:

Ingmar era senza dubbio il figlio preferito di nostro padre. Io ero il ragazzino da prendere a frustate. Papà mi picchiava più o meno ogni volta che mi vedeva. Non ha sofferto davvero, ed era molto contento di passare il tempo con nostro padre. Molto presto ha capito che se avesse fatto domande intelligenti sulla vita degli angeli e su com’erano il piccolo Gesù e il Paradiso sarebbe stato ricompensato con cioccolata calda e biscotti.

Di Dag Ingmar ha detto:

Mio fratello era una persona completamente e irreparabilmente danneggiata per via del modo in cui era stato cresciuto, e in fondo io ho avuto un’educazione simile alla sua, si potrebbe quasi dire che sono stato cresciuto nello stesso identico modo di mio fratello. Il danno che ne è derivato è stato a lungo termine e io ho passato gran parte della mia vita a cercare di riprendermi dai danni di quella educazione.

Da bambino aveva sperimentato una forte rivalità con entrambi i fratelli e voleva uccidere sua sorella: aveva progettato di uccidere questo ripugnante miserabile.

Ingmar ricorda la sua infanzia:

Casa nostra non era l’inferno. Ci divertivamo anche. Ce la passavamo bene. C’era fantasia e tanta gioia e musica e tanta gente. Potevamo portare in casa i nostri amici e c’era un teatro. Perciò voglio dire quando mio padre era in uno dei suoi momenti di buonumore e non così. Lui era in realtà molto lunatico, e pretendeva molto da se stesso. Quando mio padre era felice, non c’era nessuno che poteva esserlo di più. Irradiava felicità attorno a sé. E mia madre sapeva essere molto affettuosa, e anche tenera, e comprensiva e perspicace; perciò io penso che essi fecero il meglio che poterono. I miei genitori erano persone di buona volontà, ma l’educazione che ricevemmo, specialmente mio fratello e io, era davvero infernale, nessun dubbio su questo. Ciò valeva anche per molti altri di quella generazione, ovviamente. Soltanto che non diventarono artisti. Soffrirono e basta. E dopo non vedevano l’ora di tiranneggiare gli altri.

Non sono stato mai ostacolato. I miei interessi, parzialmente la musica, erano autonomi a casa. E presi anche qualche lezione di musica, di cui, a causa della pigrizia, non feci buon uso. Ma che noi facessimo recite teatrali, che  io avessi il mio teatro delle marionette, tutto ciò era incoraggiato. Quello era qualcosa da cui potevo trarre gioia. E dove avevo totale libertà. Oltretutto a me il teatro piaceva. Ero in grado di andare a teatro, una volta alla settimana intendo dire. E andavo a teatro tutte le volte che potevo.

Ogni anno, nella stagione estiva, i suoi genitori lo mandavano in Germania, dalla Gioventù hitleriana. Secondo Roy Anderson Non ha mai abbandonato quell'ideologia. [...] Non si percepisce nei suoi film. Ma secondo me era molto tendente al pensiero di destra. Direi quasi un po' fascistoide - più di quanto non si dica. Con questo non voglio muovere alcuna accusa; è il padre ad averlo mandato dalla Gioventù hitleriana. Nel suo taccuino Ingmar annotava: Ho gridato come gli altri, ho sollevato la mano come loro, ho urlato come loro, e ho amato come loro. Solo nel 1946 la famiglia Bergman rinunciò al negazionismo dell’Olocausto e accolse un ebreo fuggito dalla Germania.