Un monaco zen si avviò per dare la sua lezione giornaliera. Arrivato alla radura, si sedette davanti ai discepoli e stava per cominciare, quando, all’improvviso, un uccellino si mise a cantare e il monaco stette ad ascoltarlo. Dopo qualche minuto l’uccellino volò via e il monaco rivoltosi ai suoi discepoli disse: “Per oggi la lezione è finita”.
Se potessi, lascerei questa pagina vuota. Come si può parlare del silenzio?
Il silenzio non può essere capito, va sperimentato, ascoltato. Eppure c’è una enorme avversità nella nostra società verso il silenzio. Ci spinge a rifuggirlo, a colmare i buchi con le più svariate attività, per produrre, comprare, consumare. In una parola dobbiamo “fare”. Persino il tempo libero non può essere speso a fare “niente”: molto meglio una gita fuori porta, una giornata al mare, una passeggiata in montagna, quel lavoretto che rimandavi da troppo tempo. L’unico momento in cui ci si concede del “vuoto” è il momento in cui si va a dormire. Ma appena ci si corica, la testa vaga attraverso mille congetture: tutti gli impegni che ti aspettano il giorno seguente, il modo in cui ti ha risposto la vicina di casa, quella volta in cui avresti potuto dire di sì, o una vita parallela se avessi compiuto delle scelte differenti.
Perché c’è così tanta paura del silenzio, del vuoto?
Probabilmente per le risposte che potrebbe portare, per ciò che potrebbe rispecchiare: ovvero la realtà di ciò che si è?
È dal silenzio, dal vuoto, che si genera ogni suono, ogni cosa. Sedersi e ascoltare ciò che avviene intorno, ciò che si muove dentro, può essere la più interessante delle attività: il mondo esterno e il mondo interno sono in costante mutamento, ma nonostante ciò, la mente prova grande difficoltà a sedersi e rispecchiare ciò che è. Solitamente la prima cosa che viene da fare non appena si vive uno stato spiacevole è quella di distrarsi, soffocandolo con un’attività o un qualsiasi altro palliativo. Eppure la soluzione può essere proprio quella più controintuitiva: sperimentare la condizione in cui ci si trova semplicemente sedendosi e respirarla, sentirla, viverla in tutte le sue sfaccettature. “Che cosa sto provando? Sento tensione? Dove si trova nel mio corpo?” Puoi addirittura provare a dialogarci, così per gioco: “Bene oh mia tensione. Sono qui, ti ascolto. Cosa vuoi dirmi?” Potresti scoprire cose davvero interessanti. Entrando a fondo in quello stato, respirandolo davvero, momento dopo momento, e forse anche giorno dopo giorno, produrrà inevitabilmente la risposta che cercavi da tempo. Quella risposta è possibile trovarla calandosi con coraggio e in punta di piedi negli abissi più profondi della propria psiche, quelli più spaventosi.
Nelle storie c’è uno schema che si ripete spesso: un drago sputa fuoco in fondo a una cupa caverna che protegge un grande tesoro. L’eroe della fiaba uccide il drago e può portare l’oro con sé. Il tesoro può essere la risposta che si cerca ed è possibile trovarla proprio in fondo agli abissi o galassie interne. Lì, è possibile incontrare il mitologico drago. Si potrebbe però perovare a cambiare ruolo rispetto a ciò che si racconta: evitare di fare l’eroe, evitare di ucciderlo. Sta solo facendo il suo dovere di guardiano. Ci si può anche parlare, fargli le domande giuste. Ne rimarrà piacevolmente sorpreso. Si potrebbe addirittura provare a cavalcarlo e, per chi è più temerario, incarnarlo. Qualsiasi cosa si sceglierebbe non bisogna aspettare una risposta a parole. Parlano un’altra lingua loro, eppure è possibile intenderli. Fanno parte della nostra psiche.
Puoi trovare le risposte che cerchi anche fuori dal tuo io. Sempre che esista davvero un “fuori” e un “dentro”. Ad esempio, hai mai parlato con un albero? Fallo. Tanto per giocare. Esci a camminare e trova un albero qualsiasi che ti ispira, siediti lì vicino e parlaci. Ad alta voce o nella tua mente, scegli tu. Ho provato a farlo qualche volta, ho un paio di amici pini sparsi qui e là a cui torno per confidare i miei segreti. Stai pur certo che non risponderanno usando le parole, ma una risposta arriverà. Forti gli alberi, hanno un modo tutto loro di comunicare, e ci chiamano più spesso di quello che pensiamo, se solo ci fermassimo un attimo ad ascoltare.
Imparare ad ascoltare, aspettare e non aspettarsi necessariamente una risposta.
L’hai mai fatto con un umano? Intendo proprio ascoltarlo. Ascoltare davvero ciò che sta dicendo, ciò che vuole comunicare, senza stare lì ad aspettare il tuo turno per rispondere e continuare la conversazione in un botta e risposta asettico. Rimanere semplicemente in silenzio, ascoltare attivamente ciò che l’altro ti sta dicendo può essere tutto ciò di cui l’altro ha bisogno e di cui hai bisogno tu stessa. Anche in questi casi, spesso, la risposta a una domanda che ti frulla da tempo nell’animo può arrivare da una conversazione davvero sentita, percepita, vissuta. Ci sono sovente casi in cui una persona non ha bisogno di un consiglio, di un parere, ma solo di sentirsi accolta, di essere ascoltata. Può anche non voler parlare e potete stare lì insieme a contemplare il silenzio.
Il silenzio può essere figlio dell’ascolto vero, profondo, attivo e può essere estremamente creativo. Può portare idee nuove, sorprendenti, di quelle che non arriverebbero se ci si alambiccasse il cervello per trovarle. Il silenzio è pura energia. Siamo fatti del 99,99% di vuoto, di potenziale energetico. Gli atomi che compongono il nostro corpo e l’universo intero sono fatti di molecole che hanno notevole spazio tra di loro. Allora perché tutta questa avversione per ciò che ci definisce in primis? Perché questo horror vacui?
Alcuni monaci orientali portano con sé solo una ciotola nella quale ricevono il cibo in elemosina. La loro unica occupazione è quella di tenere pulita e integra la ciotola, in modo tale da riconoscere e lasciare lo spazio per accogliere ciò che verrà loro donato. Affidarsi alla vita, al grande mistero dell’esistenza è un compito difficile e semplice. La manìa di avere tutto sotto controllo, soprattutto ciò che per sua natura è impossibile controllare, può incrinare la ciotola e sottrarre lo spazio necessario ad accogliere ciò che arriverà. E ciò che arriverà, qualora sia di nostro gradimento, andrà a sua volta lasciato andare e ridato alla vita, altrimenti sarà ulteriore attaccamento e occupazione di spazio. L’invito che faccio sia a me stesso che a te che stai leggendo è quindi quello di imparare a contenere, a contemplare il silenzio, il vuoto. Mantenere la ciotola, ovvero il corpo e la mente, integra. Accogliere quello che viene e ridarlo al mondo. Affidarsi a ciò che non si conosce, al mistero, al silenzio, al vuoto.
Il vuoto non è lo spazio di qualcosa che manca. Il vuoto è potenziale. Il vuoto è vita.