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Le Quattro Montagne

Il primo scritto della serie "L’importanza di andare a fondo": Le Quattro montagne. In una società che pare sempre più agli sgoccioli, come si può rimanere centrati? Quello che più ci destabilizza è la nostra fine. Aprirsi alla morte per rimanere saldi al centro, in un mondo che si infrange.

Foto: Luca Massaroli
di Luca Massaroli

Dove senti la paura nel tuo corpo? Da quali sensazioni è accompagnata? È un nodo allo stomaco, un vuoto nel petto?

Al di là delle innumerevoli paure che ci accompagnano, ce n’è forse una, madre di tutte le altre: la paura della morte.

L’ego umano percepisce come morte non solo la morte fisica, ma anche qualcosa di più semplice come avere torto in una disputa, perché verrebbero a crollare le sue certezze. Proviamo qui ad avvicinarci proprio alla nostra finitezza fisica, e facciamolo iniziando a raccontare una storia presa dalle scritture buddhiste.

Un bel giorno Il re Pasenadi si reca dal Buddha di sua spontanea volontà, conscio di occuparsi solo della ricerca di potere e piaceri sensoriali. Il Buddha gli dice di immaginare che una persona molto affidabile si rechi di corsa dal re riferendogli che, in questo momento, una montagna enorme si sta avvicinando da Est travolgendo e distruggendo tutto ciò che incontra sul cammino. La stessa situazione avviene anche a Ovest, a Sud e a Nord. Il Buddha, infine, gli intima che questa situazione è reale, perché davvero si stanno avvicinando queste montagne travolgendo ogni cosa. Il re capisce che l’unica cosa da fare è cercare subito il bene. La sua ricerca di piaceri e potere si mette subito in prospettiva e perde qualsiasi attrattiva.

Mi piace questa idea che sia la montagna ad avvicinarsi, e non il classico tristo mietitore incappucciato di nero con falce e clessidra. Gli toglie la forma umana, le dà un senso più naturale.

Se immaginiamo come ci si potrebbe sentire all’idea di non aprire mai più gli occhi, o averli spalancati in eterno, la mente rimane inerme, impotente, incapace di attraversare quella soglia e conoscere ciò che, di fatto, non è conoscibile. Allora ecco che ci chiediamo perché siamo qui e il senso di tutto questo. Al di là della spiegazione del senso, ciò che mi interessa è l’accettazione totale, profonda, di questo fenomeno.

Le quattro montagne sono in arrivo, senza alcuna intenzione maligna nei nostri confronti. È la loro natura, e, soprattutto, è la nostra. Ci si alambicca il cervello da sempre, in tutte le culture, trovando una spiegazione.

I latini ci hanno tramandato il memento mori come monito per non dimenticare che siamo solo di passaggio. Se diamo troppo ascolto all’ego, rifugiandoci negli eccessi per non dover sentire quel peso, o quel vuoto, non faremo altro che peggiorare la situazione.

Franco Battiato va oltre il monito latino: non solo si ricorda della sua morte, ma decide anche di prepararsi alla stessa in vita avvicinandosi alla filosofia tibetana. Ha documentato questo suo percorso in un film autobiografico, che è possibile visionare qui. In Tibet, infatti, esiste il Bardo Thödol, ovvero il Libro Tibetano dei Morti, un antico testo attribuito al maestro Padmasambhava, considerato il fondatore del Buddhismo tibetano, che analizza le fasi di preparazione e attraversamento del Bardo, ovvero la morte stessa. È interessante pensare che, già nel 1550 a.C., gli antichi egizi avevano il loro Libro dei Morti: un testo sacro che descriveva l'accompagnamento della salma nell'aldilà, per fornire protezione e sopravvivenza nell'altra vita. Il titolo originale pare sia stato "Libro per Uscire di Giorno", che sottolinea l'assimiliazione del viaggio del defunto al percorso notturno del Sole.

I maestri Zen, ancora, sostengono che non c’è nulla a cui aggrapparsi a questo mondo, giacché tutto è in costante cambiamento e quindi anche in disfacimento.

There is nothing to cling on to; everything is in constant decay. So what do you worry about?

(Alan Watts)

Allora perché preoccuparsi? Perché accumulare oggetti? È forse l'ego che tenta di evitare o ritardare sempre più la sua inevitabile fine? Se fosse così allora si aggrapperebbe all’aria, per così dire, al nulla. Se la morte è così naturale e impersonale, perché fuggirla? Come si può accettarla totalmente per quello che è? Forse non serve alcuna spiegazione, alcuna analisi mentale. La nostra capacità analitica è fatta di esperienza. Ma come si può esperire qualcosa di cui non c’è consapevolezza?

Si può fare un esercizio di pensiero e guardare la nostra nascita come una “morte al contrario”: com’era prima che nascessimo? Quando abbiamo cominciato a “sentire” che eravamo vivi? Quando è apparsa la consapevolezza di esserci?

Oppure ci si pò rivolgere ad autori come Totò, nella sua Livella, o San Francesco, che addirittura si riferiva alla morte come una Sorella. Un’alleata preziosa che ci ricordi che il nostro corpo non è eterno, che forse l’unica cosa in cui possiamo riposare è quello spazio-non-spazio dentro di noi; una calma contornata da accettazione per quello che c’è, così come è. Un monito per non alimentare il nostro ego, che, gonfiato, reca danno a noi stessi e al resto del mondo. La morte come inno alla vita.

Alan Watts raccontava, ridendo, che quando nasciamo è come se ci dessero un calcio giù da un dirupo. Cominciamo a cadere e ne siamo terrorizzati. D’improvviso ci giriamo e vediamo una roccia che cade con noi. E che facciamo? Ci attacchiamo con tutte le nostre forze, come se la roccia in caduta libera ci potesse in qualche modo salvare. Quella roccia è proprio il simbolo del nostro attaccamento. Ci aggrappiamo con tutte le nostre forze a oggetti, idee, identificazioni o pensieri proprio perché il nostro ego è convinto che in questo modo possa perpetuarsi e sopravvivere. Ma stiamo precipitando, è inevitabile arrivare al suolo.

Nel libro di C. Pensa “L’intelligenza spirituale”, si trovano le bellissime parole di S. Levine a riguardo:

Tutto ciò che ci prepara alla morte accresce la vita. E, d'altra parte, tutto ciò che rende difficile morire, accettare la morte, aprirsi alla morte, è esattamente ciò che rende difficile vivere e aprirsi alla vita. Allora, in questa pratica di preparazione alla morte, che è anche dare vita alla vita, sarà fondamentale entrare in contatto consapevole con ciò che è spiacevole, invece di ignorarlo, o agirlo, o alimentarlo ciecamente. La pratica più utile è coltivare l'apertura verso ciò che è spiacevole, riconoscere in noi la resistenza e la paura nei confronti dello spiacevole. E invece fare in modo di rilassarci e di aprirci davanti allo spiacevole. Lasciarlo fluttuare libero, lasciarlo andare. Tenete presente che se scrivete un elenco delle vostre resistenze e delle vostre opinioni, questa sarebbe una descrizione quasi completa della vostra personalità. Se vi identificate con questa personalità, voi non fate altro che amplificare la paura della morte, vale a dire la perdita immaginaria di un’individualità immaginaria.

C’è una fabbricazione mentale e un attaccamento a questa fabbricazione. Ci esorta a lasciare andare questo attaccamento.

"Allora, l'apertura a ciò che è spiacevole, in luogo dell'assidua resistenza a ciò che è spiacevole. Questo è facile da enunciare, ma, di nuovo, come molti sanno, è meno facile da capire, applicare e realizzare. Che preparativi avete fatto per aprirvi a una vita interiore talmente piena che qualsiasi cosa accade può essere usata come mezzo per arricchire la vostra attenzione?"

Dire no alla morte, non accettarla, è dire no alla vita. Sono facce della stessa medaglia, poli opposti della stessa sostanza. Avere una senza l’altra non è concepibile, giacché senza il suo opposto si perderebbe il senso, la natura stessa della sostanza, la sua ragione d’essere.

È la natura delle cose, la natura del cosmo intero. Un unico grande flusso, un costante cambiamento. Forse proprio in questo momento storico è tanto utile pensare alla nostra transitorietà. Tutto cambia, tutto si dissolve, tutto si sgretola e si rinnova. Ma invece di correre, scappare con più frenesia rispetto a prima, ci si può fermare. Una resa che non è abbandono, ma forza, potere. Il potere personale, non quello che domina e troneggia sull’altro e sul mondo, ma quello interiore, quel quid che ti fa dire “sì” alla vita, qualsiasi cosa essa stia portando, vivendo consapevolmente l’emozione, sensazione e situazione conseguente.

La morte è il supremo atto di fiducia nella bontà del reale, nonostante lo scomparire dell'individualità

(Carmine Di Sante)

Niente di nuovo sul fronte occidentale. Sono cose che si sanno, in fondo, ma che spesso vengono gettate nei nostri sotterranei cognitivi onde evitare emozioni spiacevoli. Emozioni a cui è comunque possibile dire “sì”, iniziando ad accettarle per come sono e poi scegliere come agire.

Meditare sulla propria finitezza può essere un’ottima livella: aprirsi alla morte per aprirsi alla vita.

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