« J'ai compris que… »
di Giulia Schira
Una mattina a Losanna, in una classe di francese in cui insegnavo, una giovane donna di nome Halima è intervenuta dicendo « j’ai compris qu'on peut améliorer le français en le parlant ! ». Si tratta, a prima vista, un’osservazione quasi banale, con la quale concordiamo senza difficoltà. In How to do things with words (1955 / 1962), il linguista statunitense John L. Austin mostra come parlare è agire, sul mondo e sugli altri, un tema che offre appassionanti spunti di riflessione raccolti anche da autori e autrici di questa newsletter. La presa di parola di Halima chissà perché mi parlava e mi ritornava spesso in mente. Al punto che a furia di girarci intorno ho cominciato a provare la scomoda sensazione di non capirci più niente.
Per capire cosa intendeva Halima, tento di tradurre la sua frase in un codice che padroneggio meglio, usando un immaginario dizionario bilingue (il linguaggio di Halima —> il mio). Ha detto “praticare il francese ci permetterebbe di parlarlo meglio”? Oppure “Desidero un approccio didattico meno nozionistico e più improntato alla pratica”? o “Devo socializzare per integrarmi”? Se lo chiedessi ad Halima potrebbe fornirmi con certezza il senso di quel suo intervento? Sappiamo che esprimiamo agli occhi dell’altro per certi versi un po' di meno, per altri un po' di più, di quello che intendevamo dire. Ogni interpretazione può apparire più o meno corretta, a prima vista, e si potrebbe discutere su quale sia più tendenziosa e quale più aderente alla sua, quale più pertinente, eccetera. La procedura di esplicitazione che ho tentato però non basta a fare luce sull’intervento per me così toccante di Halima. Infatti qualunque altra espressione a ben vedere non equivale a quella, la sua!
/kaːne/
Prova a seguirmi... Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche (1953) ci invita ad abbandonare per un momento la convinzione secondo la quale il linguaggio sia composto da un lessico che porta in sé una dicotomia forma/contenuto dove "/'kaːne/" (forma) è "il cane è un mammifero che…" (contenuto) oppure "/'kaːne/" (forma) è 🐕 (contenuto). Il filosofo mostra come sia possibile operare queste associazioni, pure relativamente rare, ma solo all’interno del linguaggio stesso. Come per esempio quando un'insegnante in risposta alla fronte aggrottata di un allievo allofono dice "guarda, è questo un /'kaːne/" mettendogli sotto il naso una foto. È un mito pensare di poter definire una volta per tutte il significato di una parola guardandola dall’esterno (come tenta di fare un dizionario). In astratto, in linguaggio non ha senso perché non esiste. Il significato, sensibile alle contingenze, emerge infatti solo quando noi siamo implicati nel linguaggio, per esempio parliamo con qualcuno. Il senso è alla nostra portata. Nell'intervento di Halima, forma e contenuto dell’espressione appaiono inscindibili e sono così come si presentano ai miei occhi. Ciò rende la sua voce sua, ed essenzialmente intraducibile con le procedure che abbiamo tentato qualche riga fa. Forse non dovremmo quindi fare né più né meno che osservare Halima che parla.
Il linguaggio: un flusso d'azioni condivise
Ciò richiede di estendere il campo d’osservazione al susseguirsi dei movimenti, espressioni, gesti, sguardi e voci di chi popola l’aula. Sappiamo infatti che il linguaggio è un flusso d'azioni condivise. Consideriamo dunque l'intervento di Halima nella tela più ampia dell'animata classe di francese, come se guardassimo un film. Gli studenti svolgono un’attività di comprensione di indicazioni stradali. Tracciano percorsi ciascuno su una mappa di Losanna, seguendo le istruzioni di una voce maschile registrata (“la biblioteca? Deve prendere la prima a destra, proseguire fino all’incrocio, poi girare a sinistra, poi…”), i volti contratti nello sforzo di cogliere nel flusso verbale le informazioni di cui hanno bisogno. Dopo un tortuoso percorso, alcuni riconoscono con grida esultanti la biblioteca nella registrazione e sulla mappa. Trovata! Arrivati a destinazione! Altri si mettono le mani nei capelli. Pian piano la classe si acquieta. Ne segue una spontanea discussione che coinvolge tutti su quanto il signore parlava veloce. Halima visibilmente ascolta. Un po’ a sorpresa, qualche minuto dopo, la sua voce emerge tra le altre esclamando, gli occhi spalancati, « j’ai compris qu'on peut améliorer le français en le parlant ! ».
Vedi cosa sto dicendo?
Halima dice – col corpo, gli occhi, il viso, la voce – di visualizzare, lì, qualcosa di importante, in un moto che attira l’attenzione di tutti. Vogliamo vedere anche noi. Il filosofo Stanley Cavell, per esempio in The Claim of Reason (1979), mostra come il linguaggio inesorabilmente ci catturi e ci leghi gli uni agli altri in maniere come questa. Da piccolissimi muovevamo i primi passi nel linguaggio simulando per esempio la sorpresa ("OH!") o indicando qua e là col dito, cercando contemporaneamente con lo sguardo lo sguardo degli adulti. Oggi quando ascoltiamo attentamente qualcuno facciamo “mmmh… mmmh… sì... sì...". Similmente infatti chi parla chiede sempre all'altro, in qualche modo, "vedi? vedi cosa sto dicendo?". E tutta l’interazione tende alla realizzazione costante di questo vedere condiviso. Il movimento di Halima si apparenta a quello di quando in un quadro che osserviamo da un po’ emerge un dettaglio che richiama la nostra attenzione. Allora quell’immagine comprende, per noi, anche quell’aspetto che ora il nostro sguardo felicemente abbraccia. Ed esprimiamo la rivelazione in un moto liberatorio. Comprendersi è per me la gioia di riconoscere di aver colto qualcosa che conta, in una trama condivisa. Prendendo la parola in classe, Halima semplicemente e straordinariamente ci ha detto questo.
Giulia Schira lavora come insegnante e consulente nel sociale. Si è laureata in francese lingua straniera e scienze sociali all'Università di Losanna.