Di Patrizia Barbuiani
venerdì 19 luglio i sistemi informatici di microsoft non funzionano a livello mondiale bloccando aeroporti, ospedali, banche e molti altri sistemi digitali e automatici*
Aeroporto London Stansted: arrivo alle 10.30, il mio volo per Milano Malpensa è previsto per le 13.15. Noto con sorpresa un'interminabile coda in perfetto ordine inglese che va da una parte all'altra su tutta la lunghezza dell'aeroporto. Controllo il grande display, il mio check-in si trova nella zona F. Mi avvio con fatica spingendo il carrello con la mia valigia gialla stipata di indumenti usati dopo due settimane di vacanza nel Suffolk, il mio zaino a spalla, del cibo e acqua, un pullover pesante. Mi rendo conto che i display non hanno informazioni aggiornate. All'improvviso mi trovo incastrata in un blocco di persone ferme e immobili tutte con il naso rivolto in su, cercando quello che cerco io.
Informazioni.
l'animale che siamo si drizza sulle zampe fiuta l'aria percepisce odori contrastanti aguzza e allunga gli orecchi apparteniamo allo stesso regno ma siamo speci molto diverse
Poi inizia a circolare la voce. I sistemi di check-in sono bloccati perché i sistemi informatici sono in tilt. Ovvero nessun aereo può partire, nessun passeggero può essere imbarcato fino a nuovo ordine. Gilet azzurri degli addetti all'aeroporto sfilano nella massa che continua a gonfiarsi. Inizia a mancarmi l'aria. Inizia a mancarmi la fiducia di poter rientrare a casa, con innumerevoli appuntamenti importanti che mi aspettano il giorno seguente. Eppure il mio primo impulso è fuggire, cercare un albergo, rintanarmi fino al giorno seguente, perché quel mostro umano rantolante che mi circonda, inizia a stringermisi addosso. La calca s'ingrossa e le bocche spalancate delle entrate laterali continuano a vomitare fiumane di persone in partenza per le agognate vacanze. Riesco ad avvicinare un gilet azzurro che mi risponde di tornare fra un'ora a fare la fila, perché il volo per Milano verrà di sicuro posticipato. Mi sorride e con un I'm sorry il gilet sparisce asserragliato da altri questuanti.
Non mi smuovo di un centimetro. Come in trincea affronto un nemico invisibile fatto di incertezza, mi armo di pazienza e azzanno il primo panino per il nervosismo dell'incertezza.
la fame acuisce l'aggressività in casi di allarme si innescano subito moti di difesa delimitazione dello spazio prese di posizione e protezione limitata a chi ci accompagna gli altri si trasformano nel nemico
Dopo quasi due ore di attesa, scandite dalle urla degli smistatori della folla che intimano di lasciare un corridoio libero per i passeggeri che si recano alla zona di imbarco con il solo bagaglio a mano, l'altoparlante biascica parole inglesi per me incomprensibili fra cui Millanò. Dal brusio mi arrivano suoni nel mio idioma e qualcuno scandisce bisogna andare allo sportello 89.
Inizia l'Odissea per raggiungere con il carrello il luogo per il check-in. Arranco fra il moto ondoso di una folla ferma e ancorata al proprio posto da non perdere a nessun costo. I miei Sorry si perdono nella vastità di quell'oceano infinito di teste e corpi stanchi, in piedi da ore, di neonati piangenti e bambini azzittiti da genitori nervosi per gli imprevisti, ancora senza via d'uscita. Quando riesco finalmente a girare l'angolo mi si presenta un quadro apocalittico. Numeri di sportelli vicinissimi e code, ammucchiamenti, dispersi e facce interrogative. Non si riesce a capire quale sia la fila giusta. Mi metto in coda in quel trambusto fra fila 88 e 89. Poi mi immetto in un corridoio finché capisco che mi sono incolonnata nella fila per il check-in sbagliata. Arrivo all'accettazione numero 88 e l'impiegata mi dice che per Milano devo andare a quella di fianco. Mi sposto verso l'altra impiegata e salgono dalla fila recriminazioni che devo mettermi in coda che devo fare la fila come tutti che devo aspettare il mio turno. Malgrado io argomenti che la fila l'ho fatta, ma dalla parte sbagliata, prima che si surriscaldi l'ambiente già altamente incandescente, prendo il mio carrello, lo spingo in senso contrario e come un povero salmone contrastato dalla corrente raggiungo la fine della coda per l'accettazione 89. Mi assicuro di essere dalla parte giusta e scopro che il volo è stato spostato alle 15.30. Il mio orologio indica le 14.05. La mia valigia di un peso di 15 chili, di dimensioni da bagaglio a mano, l'ho dovuta allargare con una parte espandibile per riuscire a farci stare tutto. Il mio biglietto prevede solo una borsetta da portare sull'aereo. Gli operatori stanno facendo il check-in a mano poiché il sistema informatico non funziona. Anche l'accesso a Internet sembra crollato; il mio telefono non riesce a prendere né la rete né il Wi-Fi dell'aeroporto.
chiedi a un cane che ore siano e non ti risponderà anche se lui sa esattamente a che ora vuol mangiare e a che ora deve uscire per i suoi bisogni io senza un cellulare sono ferma sono niente sono dipendente da Internet da Wi-Fi ogni mia azione è scandita dall'etere agenda orario allarmi promemoria pagamenti comunicazioni persino se fuori c'è il sole per sicurezza controllo che nel pomeriggio non verrà a piovere non mi fido più di me stessa del mio intuito ho declinato dalla mia vita l'imprevisto
Alle 14.45 arrivo nelle prime postazioni. All'improvviso l'impiegata si alza urla qualcosa e sparisce dietro a una porta. Nessuno ha capito. Dopo cinque minuti ritorna e urla di prendere tutti bagagli e di avviarci alla zona dei controlli di sicurezza. Storditi iniziamo il dietrofront e fra un pigia pigia, un sorry sorry arriviamo alla zona security. Ci ferma una valchiria in divisa blu con l'ordine di tornare sui nostri passi. Le grandi valigie non hanno accesso alla zona di controllo, devono essere imbarcate a parte. Malgrado i reclami che siamo stati spediti lì dall'accettazione dobbiamo retrocedere. Sono ormai le 14.55 e sono esasperata. Qualcosa sale in me, una rabbia, un senso di inutilità, una voglia di urlare. Mi decido. Prendo la mia valigia, la apro e inizio un'operazione di smistamento, pressione, tolgo alcuni indumenti vecchi per buttarli, alcuni li arrotolo, altri li infilo nel mio zaino fino a stiparlo, chiudo la cerniera della parte allargata in modo da ridurre il volume da valigia a bagaglio a mano e poi, come da sempre nei miei innumerevoli viaggi, salto sul coperchio e con il peso schiaccio il contenuto fino a far surriscaldare le cerniere. Il cuore sobbalza, la fronte si inzuppa, il volto si imporpora e alla fine ci riesco. Non ho diritto a portare la mia valigia in sovrappeso come bagaglio a mano ma sfido chiunque ora a impedirmi di salire sull'aereo. Sono determinata, scudo il mio bagaglio, lancia il mio zaino pesante, Atena al mio fianco, non demordo, mi si innesca la sua indole, saggia e guerriera allo stesso tempo.
Riparto per la zona di controllo e allargando i gomiti, mi faccio strada, i miei sorry stridono fra i denti mentre il cervello in silenzio sentenzia sorry un cavolo.
Al passaggio infilo il mio bar code cartaceo sull'apposito lettore ma la leva non si abbassa. Ne provo un altro e la risposta è la stessa: negato-rivolgersi-a-un-assistente.
chi sono io oggi persa in questo aeroporto abbandonata da segnali di fumo inerte dinnanzi a un progresso che avanza inesorabile violento veloce che poi all'improvviso sparisce e si fa beffe della mia inettitudine cosparsa di impotenza
Cerco di richiamare l'attenzione dell'addetta al controllo dei biglietti sui cellulari e passaporti che mi indica un'altra fila di fronte alla sua in cui devo infilarmi, riservata a disabili e famiglie. Al controllo la signora inglese da un'acconciatura inverosimile, gonfia sulla nuca e con una frangetta tutta storta mi chiede quando è previsto il mio volo. Ore 15.30? Sono le 15.05 non ce la può fare. La ringrazio per la sua positività e comincio a correre verso il controllo di sicurezza. Di nuovo in fila. Mi viene l'angoscia. Non ho pensato al mio nécessaire e ai vari liquidi che mi verranno confiscati. Ma il mio terrore è che mi facciano aprire la valigia, sarebbe un'esplosione di stoffe, colori, libri e scarpe. E non sarei più in grado di richiuderla. Per fortuna la crema per il corpo l'avevo terminata e buttata. Ho shampoo in saponetta e sapone per lavarmi anziché i soliti liquidi. Dovrei farcela.
Passo nella cabina del rilevatore di metalli e ne esco indenne.
Attendo finché la macchina a raggi X mi consegna il vassoio sul nastro trasportatore come un maggiordomo educato e compunto. Thank you. Very British.
Inizia la corsa al tempo. Sul tabellone risulta Gate numero 50, Final Call. Ore 15.25, forse la bisbetica cotonata aveva ragione ed è inutile provarci.
Atena impettita sfodera le sue armi. Zigzago fra una folla lenta e melmosa che strascica nel duty free i passi pigri di chi aspetta il volo. Corro lo slalom fra panchine, bambini, carrelli, venditrici di profumi, luci al neon e tanta pubblicità inutile. Inizio a far fatica, la mia valigia è piccola e pesante e ogni tanto barcolla come me che cerco disperatamente la direzione. Infilo scale, corridoi, nastri trasportatori, scale mobili, e corro corro corro come una maratoneta verso un traguardo che forse non mi aspetta più.
Gate 45, 46, il cuore mi arriva in gola, 47, 48, i nervi cedono, le gambe si fanno di pancotto, la vista si raddoppia, 49, leggo Bari, hanno già cambiato la destinazione, poi leggo Milano Malpensa, 50. Una decina di persone si sta imbarcando. Gocciolo dal viso paonazzo e i vestiti bagnati si incollano al corpo stanco. Mi affloscio su una sedia. La gola e la bocca prosciugate mi impediscono di parlare. Rimango un tre minuti a tentare di respirare l'ossigeno che ho perso in tutte queste ore di attesa e nella corsa a ostacoli attraverso l'aeroporto Stansted. Vedo una signora, capelli grigi e lunghi che si avvicina a corsa e quasi si schianta ai miei piedi. Sussurra ce l'ho fatta. Le cedo la mia sedia, so cosa sta provando, le sorrido e annuisco. Si riprenda.
Consegno passaporto e biglietto alla hostess, che si accorge da un'occhiata che il mio bagaglio a mano non è stato pagato. L'attendo al varco. Una parola di troppo e i miei geni umbri faranno una strage con ululati da piagnona. Allargo il petto, inspiro, dilato le narici, Atena dietro di me mi sorregge. L'assistente di terra legge il mio sguardo, sente la mia determinazione, sorride e mi porge il tutto augurandomi buon viaggio.
Al posto 22A mi rendo conto che non riuscirò da sola a sollevare la mia valigia. Mi giro e chiedo al primo signore seduto di darmi una mano. Quello mi osserva e vedo un disappunto sulla sua faccia. Mi rendo conto che è una di quelle persone che mi avevano inveito contro per il mio tentativo di infilarmi al check-in 89 dopo la coda all'88. Poi cambia espressione. Il galateo ha il sopravvento sulla sua burberità, si alza e mette la mia valigia pesante nella cappelliera. Sono le 15.40. Il pilota ci avverte che dovremo pazientare fino alle 16.20 per poter decollare. Sono felice di essere sul volo.
Guardo il mio telefonino. Gli sto consegnando la mia vita. Lo reputo un alter ego che al mattino mi dice buongiorno sullo schermo, mi offre immagini dei miei congiunti in ordinata sequenza, mi ricorda gli appuntamenti, mi risponde quando lo interpello. Una panne e lui si rivela per quello che è, un oggetto computerizzato, una macchina in avaria. Ed io lo metto al centro del mio mondo. Si tratta ora di rivedere il suo operato, di mettergli una museruola e un guinzaglio corto, sarò io a decidere dove andare, come organizzarmi, quando servirmene. Intendo ridurre i mezzi tecnologici di cui dispongo. Di rielaborare le opzioni possibili per essere indipendente a livello planetario. Forse è una farsa. Però ci voglio provare. Chiudo gli occhi. Sospiro. Mi distendo. Si fa buio.
il futuro ritorna si allineano le serie numeriche i computer ripartono i fili invisibili si riconnettono le comunicazioni si allacciano la belva torna a cuccia mansueta si lecca le ferite sa aspettare quel domani in cui tornerà a vivere ad affinare gli artigli e i sensi per affrontare qualcosa d'inaspettato qualcosa di confuso qualcosa di irrisolvibile sulla scia di apparente calma piatta